Autore: Pietro Fiaccabrino
Editoriale Anno XXIV n. 33 – Dicembre 2022
Sono andato, qualche tempo fa, a trovare un’anziana zia nella sua casa di abitazione, ancora “incontaminata” da interventi innovativi o di ristrutturazione, dove spazi e arredi, odori e colori, riflettono un modello abitativo tipico dei tempi passati, ormai lontanissimo dall’attuale concezione dell’abitare, quest’ultima in stretta correlazione con i ritmi della società contemporanea.
Successione di sale, una aperta sull’altra, senza alcun ambiente di disimpegno, pavimentazione in piastrelle di maiolica policroma, interpiani con altezze considerevoli, alcuni con soffitti voltati, cucina ancora provvista di forno tradizionale a legna; mobilio di fine ’800, camera da letto con litografia della Sacra Famiglia a capezzale, grandi foto incorniciate, di familiari messi in posa, appese alle pareti con l’intonaco ormai in buona parte scrostato e una campana di vetro, contenente un raffinatissimo Bambinello di cera, posta sul tipico “cantarano”. E poi la credenza con stoviglie di primo ‘900 nella sala da pranzo dove un grande tavolo rotondo al centro, polarizza l’attenzione con una ricamatissima tovaglia e centrotavola in porcellana di Boemia. Per non parlare poi del piano scantinato, ancora dotato di mangiatoie, dove arnesi da lavoro, forconi, zappe, falci, grandi vasi per l’olio, una decina di “bummuli” disposti su due file e damigiane in vetro per il vino, rimandano ad un modus vivendi nel quale il rapporto tra casa e lavoro era indissolubile.
Ricordo ancora che, a Palma di Montechiaro, mia città di origine, fino agli ultimi decenni del secolo scorso resisteva, in alcuni casi per la verità già rarissimi, l’usanza di accogliere il mulo durante la notte, nella stanza in cui di giorno si viveva o anche si mangiava. Una consuetudine che continuò, con alcune varianti, quando a muli, asini e cavalli, un tempo ampiamente impiegati per raggiungere i campi ed i luoghi di lavoro, si sostituirono i veicoli motorizzati. Casi, in cui, sempre durante la notte, l’auto veniva parcheggiata all’interno dell’abitazione prendendo il posto del mulo, mezzo di locomozione, ormai superato. Un modo di vivere la casa – certamente difficilissimo da immaginare per le nuove generazioni – distante anni luce da quello che, globalizzazione, Internet, nuove attività lavorative, mutamenti sociali, caratterizzati da una velocità mai registrata nel passato, impongono alla famiglia di oggi.
Una cultura dell’abitare dei tempi andati la cui memoria resiste solo nei meno giovani e nelle ricostruzioni degli ambienti abitativi di un tempo, allestite in centri studio e musei etno-antropologici. Ad onor del vero, sono sempre più frequenti nei social, pagine e post in cui foto d’epoca ripropongono scorci di vita delle società contadine, con suggestive immagini in bianco e nero riproducenti frequentemente interni di abitazioni. La casa tradizionale intesa, dunque, non soltanto come luogo da fruire solo in alcuni momenti della giornata, negli orari notturni o dei pasti, ma come autentico cuore pulsante del nucleo familiare, dove trovava svolgimento ogni azione connessa alla vita domestica quotidiana. Dalla crescita ed educazione dei figli allo svolgimento di tutte quelle attività direttamente legate ai lavori svolti anche lontano dall’abitazione, sia che si trattasse di agricoltura che di pastorizia o di pesca.
Una cultura dell’abitare in cui l’abitazione era in stretta relazione con lo spazio esterno immediatamente circostante, con il quale costituiva sovente un binomio indissolubile. Lo spiazzo antistante l’uscio di casa o il cortile su cui la stessa si apriva, diventava una naturale prosecuzione degli ambienti interni, ove si svolgevano molti dei lavori casalinghi: l’essiccazione delle mandorle e dei pomodori, la preparazione delle salse, l’insaccamento dei formaggi, la conservazione delle olive, la realizzazione di canestri e contenitori in vimini, la preparazione delle reti e delle lenze per le abitazioni dei pescatori. Per non parlare poi della funzione aggregativa svolta dai cortili nei quali i componenti dei vari gruppi familiari avevano modo di intensificare le relazioni interpersonali.
Modelli abitativi presenti anche nelle antiche dimore gentilizie, nelle ville sub urbane e nelle masserie dove, alla residenza padronale, più o meno lussuosa o agiata, erano asservite le strutture abitative di pertinenza riservate a servitù e lavoratori nei campi. Va da sé la considerazione, se pur ovvia o scontata, sul radicale cambiamento della concezione dello spazio abitato nella società odierna. La casa, sia che si tratti di appartamenti in stabili condominiali o in sontuosi grattacieli – sia che riguardi unità abitative isolate, casette rurali o lussuose ville con piscina – ha progressivamente perduto l’originaria valenza aggregativa, sintetizzata nella classica definizione del “focolare domestico”, per acquisire nuove caratteristiche estetiche e funzionali.
Gli impegni lavorativi o di studio che portano i componenti del nucleo familiare a passare buona parte della giornata lontano dalla propria dimora, impongono nuove modalità di fruizione degli ambienti a scopi abitativi profondamente diverse da quelle di un tempo, con una conseguente riconfigurazione dello spazio interno. La casa, che nelle società contadine del passato costituiva il centro gravitazionale del nucleo familiare, punto di convergenza delle mansioni domestiche e lavorative, acquisisce nell’era contemporanea nuove funzioni in relazione ai radicali cambiamenti che, investendo ogni aspetto della vita sociale hanno inciso in maniera profonda, anche sulla stessa struttura e composizione della famiglia. Cambiamenti socioeconomici, ambientali, culturali, demografici e, non ultimi, quelli derivanti dall’evoluzione tecnologica e costruttiva, accompagnata questa dalla comparsa, nel modo dell’edilizia, di nuovi materiali, sempre più evoluti ed innovativi.
Non che la casa, nel significato più generale, abbia perso la sua valenza abitativa, tutt’altro! Sono mutati i modi di viverla e, di conseguenza, di fruirla. Si pensi, ad esempio, a come la grave situazione pandemica degli ultimi due anni, abbia fortemente favorito lo smart working, proponendo un nuovo tipo di relazione tra casa e lavoro. A questo si aggiungano gli effetti della globalizzazione alla quale va addebitato il processo di omologazione che ha coinvolto aspetti differenti del settore delle costruzioni: dai materiali fino a certi ambiti abitativi come, ad esempio, quello dei cosiddetti appartamenti negli edifici multipiano. D’altra parte nel corso dei millenni, il concetto dell’abitare ha subito profonde modificazioni che hanno dato origine ad una molteplicità di tipologie abitative influenzate, a loro volta, da una pluralità di fattori: posizione geografica, struttura socio-economica, politica e culturale, disponibilità di materiali facilmente reperibili in loco, sviluppo tecnologico, ecc. Lo stesso termine abitare ha assunto e può assumere significati differenti: abitare una residenza pone infatti problematiche, certamente differenti da quelle derivanti dall’abitare un monastero, un palazzo nobiliare, una casa per anziani, un residence per studenti universitari o ancora, in senso più ampio, uno spazio urbano. Potremmo anche includere nel concetto di abitare anche casi estremi come quelli di eremiti e santi vissuti per gran parte della loro vita in grotte e luoghi impervi lontano dal mondo cosiddetto civilizzato, in condizioni estremamente disagiate, a volte addirittura impensabili. A tal proposito, mi vengono in mente gli esempi limite di San Simeone lo stilita, che, secondo la tradizione, passò la sua vita in cima ad una colonna dalla quale non scendeva mai o san Zoerardo, monaco benedettino, eremita che viveva all’interno di un tronco d’albero cavo, irto di chiodi acuminati, che gli impedivano di addormentarsi, per stare in continua preghiera e meditazione.
Un processo di trasformazione, quello che, nel corso della storia ha interessato i modelli abitativi, risalente a tempi remotissimi, dalle abitazioni in grotte ed anfratti o dalle capanne dell’età cosiddetta preistorica, alle dimore del periodo greco-romano; dai castelli medievali ai sontuosi palazzi rinascimentali e barocchi; dalle case coloniali alle tipologie abitative nate all’indomani della rivoluzione industriale. E a proposito di rivoluzione industriale, come dimenticare le tremende condizioni dell’abitare, imposte nelle grandi città inglesi come Leeds, Liverpool, Londra, Manchester, alle classi operaie relegate negli spettrali suburbi degli slums, partoriti dalla logica imprenditoriale dei jerry builders. Come nel passato, dunque, anche oggi assistiamo ad una rinnovata cultura dell’abitare sempre in continuo divenire. Un cambiamento nel quale, al di là del linguaggio architettonico e stilistico, fra tanti fattori in gioco, svolgono un ruolo determinante anche i nuovi modelli di fruizione e percezione dello spazio interno e del suo rapporto con quello esterno. La tendenza alla riduzione delle superfici murarie a favore di ampi diaframmi vetrati, ad esempio, rende sempre più labile la linea di demarcazione tra lo spazio abitato e l’ambiente circostante, favorendo la veicolazione controllata della luce naturale negli ambienti. Tema delicato quello delle pareti trasparenti nelle costruzioni a scopo abitativo, frutto di un lungo percorso di elaborazione progettuale che vede protagonisti grandi maestri dell’architettura contemporanea, ai quali oggi si ispira un’ampia produzione architettonica a livello mondiale. Se, per citare solo due dei numerosi esempi, la Hillcrest House dello studio Jeff Jordan Architect è chiaramente influenzata dalla Casa Farnswort di Ludwig Mies van der Rohe, similmente la Teca House di Federico Delrosso trova palesi riferimenti nella Glass House di Phlip Jonson.
L’adozione poi, sempre più diffusa, di un linguaggio tendente al minimalismo, contribuisce significativamente a rimarcare il progressivo allontanamento da modelli architettonici ed abitativi tradizionali. Così anche nella nostra cara Sicilia, così immensamente ricca di storia e tradizione, custode di un patrimonio artistico ed architettonico straordinariamente complesso e variegato, frutto dell’interminabile succedersi e stratificarsi di culture, il processo di cambiamento e rinnovamento tende oggi ad imporre le sue regole e i suoi “ritmi”. Ma è un’imposizione che, inevitabilmente deve fare i conti con l’identità storica ed architettonica dell’isola, specie quando ci si trova ad operare all’interno di un contesto edificato, caratterizzato da peculiarità, varietà e criticità. Da qui la necessità di coniugare il rispetto e la valorizzazione delle caratteristiche tipologiche e costruttive degli edifici esistenti con l’esigenza di adeguare gli stessi alle nuove esigenze abitative e a nuovi modelli di concezione dello spazio abitato. Impresa non semplice che richiede all’architetto un approccio multidisciplinare che, attraverso la corretta valutazione delle peculiarità e criticità del contesto ambientale in cui è chiamato ad operare, gli consenta di esprimere un’architettura di qualità al passo con i tempi attuali, fermo restando il ruolo rivestito in questo processo dalle esigenze e dalle richieste della committenza.
In conclusione, nella consapevolezza che abitare un luogo o uno spazio è principalmente un fatto culturale, mi chiedo: come reagirebbe la mia anziana zia se le proponessero di riammodernare la sua abitazione, sostituendo, per esempio, i balconi con ringhiera in ferro battuto a petto d’oca della sua cucina o della sua camera da letto, con ampie finestrature vetrate con suggestiva veduta sul centro storico o realizzando, al posto della successione di stanze, un unico grande ambiente con cucina aperta sulla zona giorno o, ancora, introducendo soffitti ribassati ed illuminazione diffusa a led, al posto dei tradizionali lampadari con coppe e pendenti in cristallo?
Pietro Fiaccabrino
è Presidente della Fondazione Architetti nel Mediterraneo-Agrigento
e Direttore Responsabile di Aa
Shortlink: